70anni di Tv
Il via ufficiale alle trasmissioni radiotelevisive in Italia avvenne nel 1954, sono passati quasi settant’anni e la Tv ha camminato insieme al Paese.
Fino agli anni ’80, la Rai ha svolto il servizio in regime di monopolio, scelta praticata da tutti i paesi europei. La giustificazione formale di quella scelta fu la ristrettezza delle frequenze, ma vi furono altre motivazioni. Il timore che con la televisione, alla quale si assegnava una elevata capacità di condizionamento, si potesse ripetere l’uso propagandistico dei media. C’era anche l’idea che solo così la Tv potesse espandersi: il canone era relativamente basso, mentre il costo vero era costituito dall’apparecchio televisivo, che in tempi relativamente rapidi sarebbe peraltro sceso. E così milioni di italiani, dopo aver visto la Tv accalcati negli esercizi pubblici, poterono avere il televisore nel salotto. C’era infine un’altra variabile, forse la principale: la pubblicità in Italia nei fatti non esisteva, il paese era ancora sommerso dalle macerie della guerra ed i consumi erano limitati.
La storiografia ha rivalutato in positivo la programmazione della Rai monopolista. La Dc, si rilevò partito “serio” su questo specifico campo (nonostante tanti episodi negativi, fino alla censura di programmi “scomodi”). Gli sceneggiati, i documentari, gli spettacoli del sabato sera aprirono un mondo nuovo ad una popolazione che aveva difficoltà a parlare la stessa lingua. Alberto Manzi aiutò tante persone a superare l’analfabetismo, una piaga del paese. La Dc tenne ben salde le leve del comando sull’azienda pubblica, ma si avvalse dei migliori intellettuali di tutte le aree politiche. Intellettuali che avvertirono l’esigenza di aprirsi ad una società sempre più in fermento, fino a quando il ’68 arrivò ai cancelli di viale Mazzini. La Rai si aprì alla sinistra, che puntò inizialmente più sulla programmazione per migliorarla che sulla pretesa di avere ruoli apicali. Si creò una sorta di “compromesso storico televisivo”. Se escludiamo l’informazione, genere che è sempre stato un grave limite della Rai, la programmazione è spesso stata di successo e di qualità.
Negli anni ’80, la pressione delle imprese per avere con la pubblicità un mezzo per entrare nelle case degli italiani per invogliarli al consumo, comportò la rottura del monopolio, con relativo ingresso degli operatori privati. Nacque quasi subito in un duopolio, quello Rai-Mediaset. A questo punto la politica entrò prepotentemente nella Rai. La Rai, nella prima fase della competizione dette il meglio di sé. I “grandi” della vecchia Rai, cito come esempio Massimo Fichera, inventarono una nuova televisione, utile e bella da vedere.
I problemi sorsero alla fine degli anni duemila. I vecchi intellettuali incominciarono ad uscire per limiti d’età nel mentre la Rai, mossa dall’aspirazione di “farsi impresa”, privilegiò le assunzioni di amministrativi trascurando le competenze sui programmi (nell’illusione che fosse sufficiente comprare i programmi). La politica cominciò a stazionare nel palazzo di viale Mazzini ed intanto i problemi gestionali esplosero: il canone non aumentava e la pubblicità diminuiva perché incominciava a favorire il web.
Arriviamo all’oggi. Cos’è oggi un servizio pubblico? È ancora utile alla società?
Nel sintetico racconto che abbiamo fatto, risaltano due concetti: abbiamo definito “seri” i partiti della prima Repubblica nell’approccio sulla questione Rai ed altrettanto “seri” e “bravi” gli intellettuali che lavoravano in Rai ai programmi. Entrambe le situazioni non esistono più, la politica è in crisi ed i programmisti in Rai sono pochi e sottovalutati: le difficoltà della Rai nascono anche per questi due motivi.
Sono le persone che “fanno” la Tv, la sua qualità non dipende in prevalenza dai modelli organizzativi, come accade nelle aziende, per esempio, del manifatturiero.
Si dice “fuori la politica” dalla Rai. Giusto in teoria, ma se poi i cosiddetti tecnici si dimostrano non così distanti dalla politica la proposta si rivela inutile. Al punto che sarebbe preferibile mettere un politico vero al vertice della Rai, che in quanto tale conosce meglio le problematiche connesse al pluralismo.
Sono giustificate le tante critiche rivolte alla Rai. Però si pensa che sia ancora necessario un servizio pubblico, come baluardo per la nostra fragile democrazia e come divulgatore di culture.