Pluralismo

Il pluralismo in Rai è sempre stato inteso come ripartizione per aree politiche di riferimento delle varie testate, la ben nota lottizzazione: la maggioranza si auto-assegna il Tg1 e alle opposizioni viene concessa una testata minore. Un pluralismo espresso come la sommatoria delle varie aree politiche, un metodo non adeguato ad avere un’informazione imparziale in quanto presupporrebbe che ciascuno possa vedere tutti i Tg e farne una sintesi. Ipotesi non praticabile.
Il problema è l’irrisolta questione dello spoyl system, cioè (come sottolinea Paolo Pombeni) il “presunto diritto del vincitore di una competizione elettorale a garantirsi che la macchina burocratica lavori secondo quelle progettualità che chi è al governo è convinto di rappresentare su mandato degli elettori, affinché non si trasformi al contrario in un ostacolo al raggiungimento degli obiettivi”. Ma è concepibile, per esempio, che si cambi il vertice dell’Istat (e magari un domani della Banca d’Italia) per avere dati compiacenti sull’attività del Governo? Il buon senso, il diritto ci impone di rifiutare tale perversa logica, che ci porterebbe a vivere in una realtà virtuale. Sulla Rai invece questa logica è stata sempre applicata (nella “prima Repubblica” si diceva che la DC fosse il suo editore di riferimento), con l’aggravante che il Governo aumenta la sua influenza. Il Governo Renzi (legge 220/2015) ha ampliato, rispetto alla precedente legge Gasparri, le competenze dell’Esecutivo sulle nomine dei vertici, facoltà che la nuova maggioranza ha ben sfruttato. La Rai invece di avere (come rimarca Pombeni) “una funzione formativa sull’opinione pubblica” finisce per diventare “un’agenzia di sostegno delle politiche del governo”. Il pluralismo dovrebbe essere invece all’interno delle singole testate, arrivando così a fornire un’informazione il più possibile obiettiva. Bisognerebbe dare il resoconto più realistico dei fatti e commentarli senza offrire verità preconcette.
Un grande giornalista Rai del passato, Emilio Rossi, scriveva che al servizio pubblico si richiede “un’informazione intellettualmente onesta, il più possibile completa, attenta a riferire i fatti, pluralistica nel dar conto delle diverse valutazioni, impegnata a includere più che a escludere, a recare offesa a nessuno, aiuto a chiunque: aiuto a sapere, capire, valutare, partecipare. Certo è difficile mettere da parte le proprie preferenze ideologiche, è più facile esaltare quello che fa comodo alla propria parte e anche inconsciamente meno valore si riconosce alle idee della parte avversa”. Belle parole, che la realtà smentisce!
L’imparzialità nell’informazione è merce rara da noi. In Cina si sta sperimentando di far condurre il Tg di un’emittente locale da un robot dalle fattezze umane, l’anchor-man diventerebbe un giornalista virtuale (con il vantaggio che l’ologramma-giornalista potrebbe lavorare 24ore su 24 e senza retribuzione alcuna). Chissà che l’imparzialità non migliori con una redazione di robot!
È irriformabile la Rai? Difficile dare una risposta positiva. Il declino dell’azienda di viale Mazzini dura da anni, da decenni; ad ogni cambio di maggioranza la situazione peggiora: è evidente che la tecnostruttura interna non ha l’orgoglio né la forza di opporsi alla pressione dei partiti politici. Dovesse perdurare e ancor più peggiorare la crisi della Rai, ci si dovrebbe domandare se non sia auspicabile restringere gli spazi di mercato per l’azienda pubblica, favorendo così il sorgere di nuovi poli televisivi e ampliando il pluralismo delle fonti d’informazione.